Gli incidenti in piscine, come raccontarli?

I dubbi di chi li vede, sente e legge tutti i giorni e li deve raccontare a chi si diverte

In questi tempi di rottamazione anche la parola “vecchio” è stata sostituita con termini più gentili. Oggi non si dice più “è vecchio”, ma “ha esperienza”. Ecco, dall’alto della mia grande esperienza vorrei tentare di esprimere un concetto importante, difficile da dire senza il rischio di venire fraintesi.

Questa esigenza di esternazione nasce da un malessere che mi cova dentro da tempo, una situazione ingarbugliata di cui non riuscivo a trovare il bandolo e che si è sciolta leggendo la motivazione di una revoca della sottoscrizione alla newsletter, che diceva: “Muore folgorata mentre pulisce la piscina di casa. E’ sufficiente?”. Quello in corsivo è il titolo dell’ultima newsletter inviata, che avevo scelto io perché mi era sembrato tecnicamente interessante. Solitamente la lunga lista di incidenti estivi non riguarda problemi elettrici, mi era parsa una novità. La parola Muore in evidenza, davvero, non l’avevo notata. Così ho riflettuto su quanta distanza c’è tra il mio punto di osservazione e quello delle persone comuni. Io leggo, sento, vedo, discuto, vendo, niente altro che problemi o disgrazie. Il mio lavoro è fatto di questo, ormai si può dire quasi solamente di questo, quindi per me in quel titolo la sola cosa in evidenza era il fatto che qualcuno avesse (forse, poiché non c’erano informazioni in proposito) messo in commercio una attrezzatura per pulire la piscina alimentata elettricamente, che evidentemente non aveva funzionato o che era stata utilizzata in modo scorretto. Il fatto che una persona fosse morta per questo, per quanto sembri assurdo dirlo, faceva parte delle notizie che leggo tutti i giorni, delle relazioni peritali che scrivo, delle applicazioni delle norme che studio.

Il fatto è che tutto il resto del mondo non vede le cose da questo punto di vista, in larga parte nelle piscine si diverte.

Il passo successivo è stato chiedermi perché oggi il mio lavoro si nutra di disgrazie al punto di farmici abituare. E una risposta me la sono data senza doverci pensare su: perché ci chiamano sempre dopo, quando il peggio è successo, quando c’è il problema, quando i nostri clienti hanno bisogno di aiuto. E perché si è arrivati a questo punto? Ecco, questo è il vero argomento di questo scritto.

Ho iniziato parlando dell’età perché, come dicono i vecchi (non sarà più di moda ma così è) una volta era diverso. Venti – trenta anni fa, la piscina ce l’avevano in pochi, era roba da ricchi e da hotel di lusso. Io infatti, pur vivendo in una casa con quasi tre ettari di terreno, non ho la piscina ed il principale motivo è che non ritengo di potermela permettere. Una volta una piscina costava molto, ma era fatta bene. Le piscine costruite ai tempi del fascismo non perdono una goccia d’acqua ancora oggi, ed allora non esisteva il Mapelastic. Semplicemente, sapevano come fare e nessuno si sarebbe mai sognato di mettersi a fare piscine perché c’è la crisi nel settore dei giardini. Fare una piscina era una cosa seria, si cimentavano in pochi ma ci riuscivano bene. Poi è arrivato il boom edilizio, la gente ha avuto più soldi e la richiesta è aumentata. Tutti volevano possedere i simboli della ricchezza e la piscina, caspita, quella si era davvero roba da ricchi. La richiesta è aumentata a dismisura e il mercato si è sviluppato, secondo un metodo puramente e tipicamente italiano, fatto di micro imprese che non si parlano tra loro. Contrariamente a quanto avviene in Francia, dove piscine anche se di scarsa qualità e basso costo sono comunque realizzate in serie e correttamente dimensionate, testate e certificate, qui in Italia ognuno si sente un Brunelleschi, un Palladio o un Renzo Piano e si cimenta nel realizzare la piscina più bella, da solo e purtroppo molto spesso senza avere le necessarie competenze per farlo. E arrivano i guai, poi ci chiamano, eccetera, eccetera.

Come intervenire prima? Come fare in modo che i guai non si verifichino? E soprattutto come fare in modo che il settore cresca tecnicamente, culturalmente e, soprattutto, moralmente? E’  una strada difficile ed ardua, che Professione Acqua percorre da tanti e tanti anni, con esito incerto. Si può farcela da soli? Non lo so. Devo credere che si, si possa farcela, anche se ogni anno che passa è un anno di fatica inutile in più, un anno di lavoro senza che ancora il traguardo si intraveda in lontananza. E spesso mi chiedo se tutto questo abbia un senso, se non convenga lasciare che le cose vadano come vanno. Se non sia il caso di approfittare del mare di ignoranza e farci i soldi, come fanno tutti. Ma mio nonno diceva che se hai la disgrazia di nascere onesto muori povero, e quindi mi rassegno, mi rimbocco le maniche e ricomincio, anno dopo anno.

La ricetta giusta non ce l’ho. Ho dei desideri, piuttosto, dei sogni, se vogliamo definirli così. Vorrei che le aziende potenzialmente sane si mettessero insieme, vorrei che ci si muovesse con più forza in una direzione che però deve essere chiaramente identificata per quello che è: la strada più dura. Quella dove si guadagna meno, dove si fa più fatica a convincere i clienti, quella dove per farcela devi avere una struttura, tua o prestata da altri, dove nulla ti viene regalato anzi qualcosa spesso ti viene portato via… quella strada li, insomma. Tutti noi nella nostra vita almeno una volta, per le ragioni più strane, abbiamo dovuto percorrerne almeno un pezzettino. Perché farlo? Solo perché si crede che sia giusto, e basta. Il risultato di un mondo migliore non lo godremo noi, probabilmente. Non credo che la nostra esperienza ci consentirà di raccogliere i frutti di questa semina. Ci sarà qualcuno disposto a farlo? Non lo so. Non so davvero rispondere a questa domanda.